Il periodo di prova è un lasso di tempo in cui le parti che stipulano un contratto di lavoro valutano la convenienza dello stesso. Durante la prova il contratto di lavoro è definitivamente costituito e i diritti e gli obblighi delle parti sono pienamente operanti. Dunque, l’unica particolarità consiste nel fatto che in tale periodo le parti possono recedere liberamente dal contratto senza obbligo di preavviso.
In questo articolo approfondiremo gli aspetti fondamentali che gravitano attorno alla stipula del periodo di prova, tenendo come leitmotiv la base normativa dell’art. 2096 del cc e le recenti novità apportate con il Decreto Trasparenza (D.Lgs. 104/2022).
In particolare, del periodo di prova approfondiremo: la forma necessaria per la sua validità, l’oggetto del patto, le modalità con cui avviene la prova, la durata e l’eventuale sospensione alla luce delle recenti novità normative ed infine i risvolti per il datore di lavoro che intenda recedere in costanza di periodo di prova.
Quale forma è necessaria per il periodo di prova?
Ai sensi dell’art. 2096 cc, comma 1, il periodo di prova deve risultare da atto scritto. Tale forma è richiesta ad substantiam actus e la giurisprudenza non ammette nessun tipo di equipollenti o sanatorie successive. Se, dunque, nel contratto di lavoro non viene inserito il periodo di prova e dopo l’inizio del rapporto lavorativo si voglia far valere un’integrazione postuma il patto è nullo.
Dunque, ai fini della legittimità del patto, questo deve avere forma scritta e deve essere antecedente o contestuale alla costituzione del rapporto di lavoro.
Qual è l’oggetto della prova?
La clausola che prevede il periodo di prova deve contenere l’indicazione delle precise mansioni affidate al lavoratore. Questo è necessario perché l’art. 2096 cc, comma 2, dispone: “[…] L’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del periodo di prova”.
Viene da sé che la mancanza della specifica indicazione delle mansioni – non permettendo né al lavoratore né al datore di lavoro di svolgere in concreto questo esperimento per carenza di definizione dell’oggetto della prova – costituisce motivo di nullità del patto, a prescindere dal livello contrattuale e dalla natura della mansione assegnata.
Dunque, posto che la prova deve effettuarsi in ordine a compiti esattamente identificati sin dall’inizio, è possibile concordare un periodo di prova se tra le parti ci sono stati precedenti rapporti di lavoro?
L’art. 7, comma 2, D.lgs. 104/2022 prevede espressamente che in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.
A livello giurisprudenziale, tuttavia, la prova può essere concordata anche se tra le parti sono intercorsi precedenti rapporti di lavoro, purché serva per compiere l’esperimento non realizzato prima (Trib. Roma 28 aprile 2005 n. 7921). Pertanto, il patto è ammesso nell’ipotesi di rapporti diversi e successivi e solo a condizione che vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare elementi sopravvenuti o ulteriori rispetto alla valutazione già compiuta, mentre è invece illegittimo quando la sperimentazione è già intervenuta con esito positivo nel corso di precedente rapporto di lavoro tra le parti avente ad oggetto le medesime mansioni.
É stato specificato inoltre dalla giurisprudenza di legittimità che la reiterazione del periodo di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati tra le stesse parti è ammissibile quando risponde ad una finalità apprezzabile e non elusiva di norme cogenti. Dunque, si tratta dei casi in cui la prova è volta alla verifica non solo delle qualità professionali, ma anche del comportamento e della personalità complessiva del lavoratore, in relazione al fatto che tali elementi sono suscettibili di modifiche nel corso del tempo (Cass. 12 dicembre 2016 n. 25368; Cass. 9 marzo 2016 n. 4635; Cass. 17 luglio 2015 n. 15059; Cass. 22 giugno 2012 n. 10440).
La durata del periodo di prova
Il recente Decreto Trasparenza (art. 7, D.Lgs. 104/2022) si è espresso circa la durata massima del periodo di prova, confermando che: “Nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi”.
Spesso, infatti, è la contrattazione collettiva ad occuparsi della durata del periodo di prova, distinguendo tra livelli e/o categorie, nonché prevedendo le modalità di calcolo della stessa in giorni o mesi, rimanendo sempre nel limite previsto dalla legge.
Può quindi accadere che il periodo previsto dal CCNL aziendalmente applicato sia di durata inferiore a quello previsto dalla legge. In questi casi, nel contratto individuale, i termini previsti dalla contrattazione collettiva possono essere aumentati, se la particolare complessità delle mansioni affidate al lavoratore rende necessario, nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto normalmente congruo dal CCNL (Cass. 19 giugno 2000 n. 8295).
In generale però, la giurisprudenza è concorde nell’affermare che, se una clausola pattuita a livello individuale fissa il periodo di prova con un termine maggiore rispetto a quello stabilito dalla contrattazione collettiva questa deve ritenersi sfavorevole per il lavoratore e, come tale, sostituita di diritto, salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore (Cass. 26 maggio 2020 n. 9789).
Periodo di prova e Decreto Trasparenza: cosa cambia?
Con il già citato Decreto Trasparenza si sono approfonditi due aspetti su cui il legislatore non si era mai soffermato:
- il periodo di prova nel contratto a termine;
- i casi di sospensione della prova.
Infatti, partendo dal primo punto, è sempre mancata nel nostro ordinamento una disposizione normativa per stabilire la durata adeguata del periodo di prova nel contratto a termine. Il rischio era quello di avere dei periodi di prova coincidenti o addirittura più lunghi della durata del contratto. Il D.Lgs. 104/2022 è intervenuto su questo punto disponendo all’art. 7, comma 2, che: “Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego.” Questo significa che la prova deve essere riproporzionata all’effettiva durata del contratto a termine.
La seconda novità è l’introduzione con il Decreto Trasparenza di cause di sospensione della prova. Infatti, queste erano già ammesse precedentemente dalla giurisprudenza, ma sono state confermate dall’art. 7, comma 3, che dispone: “In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza”.
Il comma 3 stabilisce in particolare che il periodo di prova è quindi prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza, richiamando – a titolo meramente esemplificativo – la sopravvenienza di eventi quali malattia, infortunio, congedo di maternità/paternità obbligatori. L’indicazione di tali assenze, coerentemente con quanto previsto nella direttiva e come si evince dal tenore letterale della disposizione, non ha carattere tassativo e dunque rientrano nel campo di applicazione del comma 3 tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, fra cui anche i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104/1992 (cfr. Cass. n. 4573 del 22 marzo 2012 e Cass. n. 4347 del 4 marzo 2015). Ne consegue che, non essendo stata espressamente prevista, né a livello normativo né dai successivi interventi chiarificatori del Mistero/INL, la sospensione del periodo di prova nel caso di fruizione di ferie, queste, in attesa comunque di auspicati chiarimenti e al fine di una maggior tutela aziendale, non sono considerabili quali causa sospensiva del periodo di prova.
Il recesso in costanza di periodo di prova: a cosa occorre prestare attenzione?
Al termine del periodo di prova, perché il rapporto di lavoro si consideri definitivo, non è necessario che il datore di lavoro renda esplicita in alcun modo la sua volontà di confermare il lavoratore, ma è sufficiente che l’attività lavorativa prosegua – anche per breve tempo – dopo la scadenza della prova.
In via generale, durante o al termine del periodo di prova le parti sono libere di recedere dal contratto senza obbligo di motivazione – trattandosi di un caso di recedibilità “a-causale” – e senza obbligo di dare il preavviso o di pagare la relativa indennità sostitutiva (art. 2118 c.c.).
Tuttavia, bisogna prestare particolare attenzione a che l’esercizio del diritto potestativo riconosciuto al datore di lavoro non si risolva nel mero arbitrio del suo titolare.
Infatti, il recesso datoriale è considerato illegittimo se:
- al lavoratore non siano state attribuite concretamente le mansioni;
- la verifica è stata condotta su mansioni diverse da quelle per cui è stato assunto (inferiori o superiori);
- il periodo è stato inadeguato a permettere un’idonea valutazione delle capacità del lavoratore.
Inoltre, il recesso del datore di lavoro non deve essere riconducibile ad un motivo illecito (es. una ragione discriminatoria) o estraneo al rapporto di lavoro (es. l’invalidità del lavoratore).
In un eventuale giudizio l’onere della prova grava sul lavoratore e, qualora questo riesca a dimostrare l’illegittimità del recesso non è ammessa la tutela reale. Infatti, il giudice o dispone il diritto del lavoratore a terminare il periodo di prova (ove possibile) oppure il lavoratore ottiene il risarcimento del danno.
Infine, è importante specificare che la discrezionalità di recedere del datore di lavoro sussiste anche quando la prova sia stata effettivamente superata in modo positivo sotto il profilo professionale. Infatti, il datore di lavoro è libero di recedere sulla base di una valutazione del comportamento complessivo del lavoratore, desumibile dalla sua correttezza e dal modo in cui si manifesta la sua personalità.