Con la sentenza n. 17371 /2015, la Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di una successione di appalti, il patto di prova non può essere inserito nel contratto di lavoro, qualora il dipendente abbia già svolto presso un’azienda diversa, titolare però dello stesso contratto di appalto, mansioni identiche a quelle oggetto della prova; tale analogia rispetto alle mansioni precedenti deve sussistere anche sul piano sostanziale.
Al momento della riassunzione del personale, il nuovo datore aveva inserito nel contratto di lavoro un periodo di prova e, prima della scadenza di tale periodo, aveva licenziato la dipendente per mancato superamento della prova stessa.
Pertanto, il patto di prova, così come previsto da numerosi contratti collettivi, è da considerarsi o allorquando, nonostante le mansioni e il livello di inquadramento “sulla carta” siano differenti nei due rapporti di lavoro intrattenuti con il vecchio e con il nuovo appaltatore, nella sostanza il dipendente svolga sempre le stesse mansioni: quello che conta è infatti il contenuto reale dei compiti affidati al dipendente
È infatti opportuno rammentare che la ratio del patto di prova è quella di consentire ad entrambe le parti una verifica circa la convenienza del rapporto di lavoro, in relazione alle mansioni affidate al lavoratore; se tale verifica è già avvenuta in passato, per un periodo congruo, a favore dello stesso datore o a favore di un datore di lavoro titolare dello stesso contratto di appalto, un eventuale ulteriore patto di prova è invalido.
Infine, si precisa che il principio enunciato, nei casi di successione di appalti, vale soltanto se il contratto collettivo esclude la possibilità di apporre nuovamente il patto di prova, pertanto, tali conclusioni non paiono mutuabili ai casi dove manca, nel contratto collettivo nazionale di lavoro, un espresso divieto di rinnovazione del patto a carico dell’appaltatore subentrante.