Faccio un tuffo indietro di oltre 30 anni.
Mi rivedo in un locale sotto casa. Una scrivania, una piccola fotocopiatrice di seconda mano, mezzo armadio per mettere i libri, il sole 24 ore come unica fonte di aggiornamento e una voglia matta di conquistare il mondo.
È così che a 23 anni ho aperto il mio studio di consulenza del lavoro.
3 clienti e 1 sogno: esercitare la professione.
Passavo le mie giornate a studiare aspettando che suonasse il telefono.
Il mio sguardo si spostava dalle parole impresse sui libri universitari, alla lettura di norme inserite nel codice del lavoro.
Al mattino aspettavo che mio padre, da buon commerciante, guardasse le quotazioni dell’argento, per poi tuffarmi nella lettura del Sole 24 Ore.
Ritagliavo gli articoli che mi interessavano e li archiviavo con cura nella parte dell’armadio concessa in uso da mia sorella (l’altra parte era occupata dai giochi dei miei nipotini).
Ho imparato rubando il lavoro agli altri. Nessuno mi ha insegnato nulla. Tutti erano gelosi del loro sapere.
Appena potevo, sbirciavo quello che facevano i colleghi e cercavo di comprendere il funzionamento dei numeri impressi su centinaia di fogli che inondavano le loro scrivanie.
Fogli, che poi ho scoperto essere “cedolini paga”.
Allora c’era il libro paga manuale. In pochi elaboravano le buste paga con sistemi informatici.
Dove ho fatto pratica, c’erano le perforatrici. Persone che trascorrevano le giornate imputando abilmente i dati che noi, dell’ufficio paghe, producevamo mensilmente per ogni dipendente (con i giorni retribuiti, le settimane coperte e la retribuzione lorda).
La velocità delle loro dita sulla tastiera era impressionante.
I dati, una volta inseriti, andavano nella sala server (un locale con macchinari enormi che occupavano tutta la stanza) per poi essere memorizzati su delle bobine che sembravano quelle dei vecchi film delle sale registrazione.
Ed ecco che dalle schede perforate (supporti di registrazione in cui le informazioni venivano memorizzate sotto forma di perforazioni in codice), i dati si trasformavano magicamente in cedolini paga a ricalco, stampati a striscia continua con le stampanti ad aghi.
Solo a scriverlo, mi sento addosso almeno 100 anni.
Ma, la cosa strana, era che, in quel periodo, tutto era in equilibrio.
Non c’era stress. Non c’era paura del lavoro. Solo curiosità. Voglia di imparare e sete di sapere.
Forse ero incosciente a causa dell’età. Non lo so.
So solo che oggi, guardando i giovani, mi rendo conto che abbiamo guadagnato, ma anche perso molto.
Abbiamo guadagnato tanto in termini di conoscenza, opportunità, apertura mentale, velocità, crescita, viaggi e contaminazione tra le persone (e non sto parlando del Covid-19).
Nello stesso tempo, però, abbiamo perso i nostri valori, la semplicità, la capacità di gustarci le piccole cose, il tempo da dedicare a noi stessi e la nostra manualità.
Non avendo un soldo in tasca, ricordo che molte cose le realizzavo direttamente io. Dai quadri, al muro da dipingere, al riciclaggio di ogni pezzo di carta e di ogni raccoglitore utilizzato in studio.
Ci si arrangiava e si era felici. Non c’era la competizione distruttiva. Non c’era il controllo ossessionato dei genitori. Non si creavano grandi aspettative e il livello di ansia da prestazione era quasi azzerato.
Bastava poco.
Ed è da qui che nasce la mia domanda.
Una domanda per una riflessione collettiva:
Che cosa possiamo tenere, di quello che abbiamo oggi, che facilita la nostra vita e cosa, invece, possiamo cambiare per ritrovare quella sensazione di benessere ed equilibrio che abbiamo provato nel passato?
Una riflessione per ognuno di noi dovrebbe fare per migliorare la qualità della sua vita.